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autore:Unknown
Format: epub


Le scuole devozionali

Mentre in queste scuole si affermava per inferenza l’esistenza di Dio con le armi della logica e della dialettica, altre correnti muovevano dalla avvertita presenza di Dio, dalla innegabile concretezza dell’esperienza religiosa, da quel dato non dimostrabile ma non meno certo che è la fede, oppure come il Vedanta si rifacevano alla rivelazione.

Invocando l’autorità di alcuni testi upanisadici come la Katha e la Mundaka esse concepivano Dio come amorosa guida dell’uomo, sollecitato dalla devozione dei propri fedeli; nascono così le scuole dei Bhagavata o Bhakta, destinate a grande fortuna e sviluppo. Voler stabilire l’origine di queste scuole è fatica vana: possiamo soltanto indicare certi riferimenti letterari i quali dimostrano con l’indeterminatezza cronologica, non rara in India, che ad un certo momento correnti religiose popolari tentano di rivestirsi di giustificazioni teoriche. Naturalmente vien subito fatto di riferirsi alla Bhagavadgita, uno dei più nobili monumenti del pensiero e della religione dell’India ed insieme una delle maggiori opere poetiche dell’Oriente: il panteismo upanisadico si concreta in un Dio preciso, Krsna-Vasudeva, il quale racchiude in sé gli attributi del Brahman, ma si incarna in forma umana per difendere quel dharma, o quella giustizia senza la quale l’universo degenera in confusione e caos. Naturalmente la posizione panteistica e quella teistica non sono ancora chiaramente distinte: il rapporto fra Dio personale e l’anima universa non è determinato e neppure lo è l’altro, fra quel supremo principio e l’anima individua.

Ora Egli è quell’atman limitato dai modi della prakrti, da lui emanata, e nella quale egli getta il seme della creazione, ora esso è presente, indiviso in tutti.

XIII, 16. «Egli è indiviso, eppure sembra diviso fra le creature: egli deve riconoscersi come colui che sostiene le creature, che le divora e poi (di nuovo) le emana.

Ora differenziato in molti, ora assolutamente diverso dai molti.»

IX, 4-5. «Io quest’universo pervado con la mia forma immanifesta; tutte le creature in me dimorano, ma io in esse non dimoro; eppure tutti gli esseri non dimorano in me; grande è il mio divino potere; il mio atman che è la origine di tutto, le creature sostiene, ma tuttavia in esse non dimora.»

A malgrado di questi ondeggiamenti e indecisioni del pensiero sovrasta la personalità del dio amico e compagno dell’uomo.

XI, 44. «Tu devi, o Dio, compatire me, come un padre il proprio figlio, un amico l’amico, un amante l’amata.»

A lui il devoto rende omaggio.

IX, 30. «Anche un uomo di iniqua condotta se venera me, e non rivolge ad altro il suo culto, deve essere riconosciuto come persona buona, perché egli ha seguito un giusto consiglio».

34. «Colui che in me prende rifugio, o Partha, sebbene sia nato in umile matrice, sia donna, Vaisya (uomo di casta di mercanti; non brahmano) o persino intoccabile (sudra) egli ottiene il supremo destino».

Senza grazia divina l’uomo si troverebbe solo e senza ausilio naufrago nel mare dell’esistenza.

XVII, 56. «Anche compiendo sempre ogni sorta di azioni, prendendo in me rifugio, per causa della mia grazia, egli ottiene la eterna, indefettibile condizione.

58. Fissando il tuo pensiero in me, tu supererai



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